Il Fatto del mese

 

Andrea Agnelli e gli amici della Juve: tutti “Bravi Ragazzi”


“Quando sono entrato nella sede dei Drughi, ho visto mazzette (“bricks”) di contanti e biglietti, vicini ad un enorme poster di Mussolini. Sembrava più una banca che un fan club”. Parla di ultras, il giornalista inglese Tobias Jones, nel suo reportage del 2016, quando ancora i grandi media italiani dormivano sonni beati,  parla della Juventus: i Drughi sono uno dei cinque gruppi del tifo organizzato della curva della “Vecchia Signora” , il più numeroso, il più potente, il più solido da quando, una ventina di anni fa, c’è stato un “salto di qualità” del settore. La torta si è fatta più grande, come gli appetiti; ed è cresciuta la violenza, la capacità intimidatoria dei “tifosi”. C’è stata una selezione naturale dei capi.
Ci vuole gente tosta per tenere a bada le “teste calde” (in realtà, calde a comando, normalmente freddissime).  Ci vogliono delinquenti di prima categoria. Di sicuro lo è Gerardo “Dino” Mocciola, torinese, che quando rilancia i Drughi nel 2005 ha già scontato una condanna a vent’anni per l’omicidio di un carabiniere, ed è in contatto con la n’drangheta trasferita a Torino. Non può andare allo stadio, avendo avuto un “daspo”, è troppo esposto (e infatti sarà sempre una specie di Primula Rossa, nessuna immagine, nessuna notizia); ha bisogno di una figura neutra che faccia da mediatore, un incensurato che sappia tenere buone relazioni con tutti: è il profilo di Raffaello “Ciccio” Bucci da San Severo (Foggia), tifosissimo della Juve da sempre, emigrato a Torino in cerca di fama e fortuna, un tipo che si adatta benissimo a tutti gli ambienti, la curva e il salotto, la strada e il jet set.
Mocciola comunque deve confrontarsi con altre fazioni emergenti, e altri personaggi inquietanti, come Andrea Puntorno, leader dei “Bravi ragazzi” (omaggio ai “Goodfellas” di Martin Scorsese): a metterli d’accordo in un primo momento è il vecchio boss Placido Barresi, che gestisce la faccenda dal carcere. Ma quando le mafie entrano in gioco, poi il gioco lo vogliono controllare loro. Il clan calabrese dei Pesce- Bellocco ha i suoi emissari a Torino, che sono i Dominello padre e figlio. E’ il Dominello giovane, Rocco, un nullatenente che gira in Jaguar, ad agganciare il punto di contatto ufficiale fra la Juventus e i tifosi, che è appunto Ciccio Bucci. Vediamo di inquadrare il momento storico. Siamo agli inizi degli anni Dieci. E’ un momento di passaggio importante per la “Vecchia Signora”, da tutti i punti di vista. La società torinese si stava faticosamente riprendendo dallo scandalo del 2006, legato alla gestione Giraudo-Moggi-Bettega, scandalo per cui era stata retrocessa in serie B. Ma la rapida risalita in serie A non aveva significato automaticamente il ritorno agli antichi fasti. Serviva un cambiamento, una ristrutturazione profonda.
Il rilancio coincide con la presidenza del giovane Andrea Agnelli, classe 1975, con la gestione sportiva affidata a Beppe Marotta, già bravissimo manager della Sampdoria: i due arrivano insieme nel 2010; ma la riscossa si concretizza nel 2011, con l’ingaggio dell’allenatore Antonio Conte e, soprattutto,  l’inaugurazione del nuovo stadio di proprietà, lo “Juventus Stadium”, un gioiello di impostazione “british”. Tutto è bello, nuovo, efficiente e vincente fin da subito.
Agnelli, destinato a  superare il record sportivo di scudetti vinti del nonno Edoardo, chiama alcuni amici di lunga data a partecipare al nuovo corso: uno di loro è Alessandro D’Angelo, figlio dell’autista di Umberto Agnelli, compagno di giochi fin dall’infanzia, a cui Andrea affida il delicato settore della “security”, che comprende i rapporti con il tifo organizzato, e passa dalla gestione dei biglietti (la torta di cui sopra). Un altro amico intimo del giovane Agnelli è Francesco Calvo, conosciuto mentre il rampollo della “famiglia reale” di Torino si faceva le ossa alla Philip Morrisin Svizzera; Calvopresiede i rapporti commerciali e di marketing. Come nelle migliori commedie sentimentali, Andrea Agnelli gli porterà via la moglie, la bella modella turca Deniz Akalin, e farà due figli anche con lei (dopo i due avuti da Emma Winter).
Il cerchio si chiude, da tutti i punti di vista, con l’assunzione come “event manager” di Alberto Pairetto, anche lui con un passato alla Philip Morris, ma soprattutto figlio di Pierluigi Pairetto ex arbitro di serie A e designatore arbitrale, condannato proprio per “Calciopoli”, visto che faceva scegliere direttamente direttori di gara e guardalinee a Luciano Moggi; insomma, per arbitraggi “à la carte” a favore della Juventus. Il cerchio sichiude perché a fare il braccio destro di Pairetto c’è proprio Raffaello “Ciccio” Bucci da San Severo, il “drugo buono”, l’amico degli amici.
Sono tutti quarantenni rampanti, i sodali di Andrea Agnelli, nati nel 1975 e dintorni, proprio come i due astri nascenti della politica del decennio, Matteo Renzi e Matteo Salvini. Tutti molto determinati e “smart”. E’ con loro che la Juve torna a dominare il calcio italiano, anzi si eleva a vette assolute, esempio di grande società europea, con budget stellari e gestione impeccabile. Una macchina così perfetta ha però sempre qualche problemino con i tifosi, sia dal punto di vista “politico”, per gli istinti fascisti e razzisti della curva Scirea; sia per il tendenziale ricatto che tutti gli ultras ben organizzati mettono in atto nei confronti delle società, anche perché nessuno si è mai sognato di mettere in discussione il concetto di “responsabilità oggettiva” dei club per ciò che avviene dentro lo stadio, come suggerì, inascoltato, l’attuale CT della nazionale, Roberto Mancini, ai tempi dell’omicidio Raciti a Catania.
E per una gestione efficiente delle teste calde e del business dei biglietti, esiste forse qualcosa di più organizzato delle mafie? Stabilire se sono state queste a infiltrarsi, o la dirigenza ad affidarsi a loro è un po’ come stabilire se viene prima l’uovo o la gallina: era un patto di reciproca convenienza, né più, né meno. Quindi, “Ciccio” Bucci è l’anello di congiunzione fra la Juventus e tutti i gentiluomini che abbiamo visto in apertura. Ma il gioco si stava facendo più grosso di lui, soprattutto quando Rocco Dominello fonda il suo club di tifosi (i “Gobbi”), e pretende di accomodarsi in curva con tutti gli onori. Il 21 aprile 2013, per il “match clou” fra Juventus e Milan (che ribadisce la fine della potenza rossonera e il passaggio alla dittatura juventina ancora in pieno corso), la n’drangheta fa il suo ingresso ufficiale allo “Juventus Stadium”, per non muoversi più. Nella gestione dei biglietti, i Dominello arriveranno addirittura a ricevere i tagliandi per la partitissima Juve-Real Madrid da Marotta in persona. Ma il giro in pochi anni si fa troppo pesante, le richieste sempre più esose, Bucci non sa più come contenere gli appetiti di tutti, perché lui un boss mafioso non lo è; anzi, dal 2014, sempre più incasinato, diventa un informatore della Digos. Non può durare a lungo. Ormai coinvolto a pieno titolo anche nel riciclaggio di denaro sporco, probabilmente debitore, forse “bruciato” come informatore, Bucci è un uomo disperato, che non sa come rispondere alle minacce a lui e al figlio piccolo. Alla fine, il 7 luglio 2016, Bucci si suicida o viene “suicidato” con un volo dal viadotto della Torino-Savona, lo stesso da cui si gettò il primogenito di Gianni Agnelli, Edoardo. I risvolti della morte di Bucci sono emblematici: è la Juventus stessa che recupera la macchina di Bucci (datagli in leasing dalla società) e la consegna “ripulita” alla polizia che indaga (!). Nelle intercettazioni telefoniche, Alessandro D’Angelo, che copriva i “Gobbi” di Dominello allo stadio (aveva fatto passare perfino il vergognoso striscione che ironizzava sullo schianto di Superga in cui morì tutta la squadra del Grande Torino, in occasione del derby) piange lacrime amare, forse in preda ai sensi di colpa. Questi passaggi sono emersi nella famosa puntata di “Report” dell’ottobre 2018, un’inchiesta coraggiosissima condotta dal giornalista Federico Ruffo(poi minacciato, insultato, vittima di un attentato, senza una riga di solidarietà da parte della Juventus) sotto la direzione di Sigfrido Ranucci (che ha ricevuto lo stesso trattamento).
Ma dai reportage di Tobias Jones alla puntata di “Report” sono passati quasi due anni. Per molto tempo, in tanti hanno fatto finta di niente, e molti ci provano ancora, a partire dal giornalista sportivo Andrea Bosco, che proprio in questi giorni difende a spada tratta la Juventus su questa faccenda, in un sito del tifo bianconero.
In questi due anni, è andata avanti l’inchiesta “Alto Piemonte”; Rocco Dominello è stato arrestato; Fabio Germani, altro capo ultrà fondatore della “Società bianconera” collegata ai Dominello è stato condannato in appello per associazione mafiosa;  Andrea Puntorno, che si vantava davanti alle telecamere RAI dei soldi che faceva col bagarinaggio, è stato beccato ai primi di marzo in un giro di affari col boss mafioso di Agrigento Antonio Massimino.
Insomma, di merda ne è venuta fuori tanta. Ma la Juventus ne è uscita (?) linda e pinta, come Andrea Agnelli, che ha mentito davanti alla giustizia sportiva (negando di aver mai incontrato Rocco Dominello), ed è stato messo in gravissimo imbarazzo da Rosy Bindi che l’ha sentito per conto della Commissione Antimafia (gli è stata ricordata un’intercettazione in cui dimostrava di conoscere i precedenti penali del giovane boss); per lui, alla fine, solo un buffetto, il deferimento per un anno (pur sempre una condanna, i fatti erano accertati), poi rientrato, in cambio di una multa da 20mila euro: niente.
Ma si rimane colpiti non solo dall’impunità incredibile nel nostro paese, impunità legata a filo doppio alla lentezza esasperante della giustizia, e a un garantismo che vale solo per i potenti. Quello che lascia più sconcertati è la totale assenza del giornalismo. Questa è l’ennesima storia italiana che in un film americano verrebbe gridata per giorni (mesi) in prima pagina a caratteri cubitali. Una trama da film di Martin Scorsese, appunto. E invece niente. Per scrivere questo pezzo, abbiamo preso spunto da un trafiletto di “Repubblica” sull’arresto di Puntorno. Il grande reportage di Tobias Jones l’avevamo letto all’epoca su “Internazionale”. Ma cercando le fonti per dare un minimo di coerenza alla storia, è emerso (o meglio, si è confermato) un quadro deprimente, troppo ricorrente per essere casuale. Per fare una ricostruzione globale, ci si deve muovere in mezzo a decine di piccoli pezzi sparsi, quasi sempre opera di testate minori. Certo, i giornaloni possono sempre dire: “Noi ne abbiamo parlato”: come no, un articolo minore di qui, un pezzo “on line” di qua, un accenno nelle pagine interne, un richiamo frettoloso nelle pagine sportive.  Sembra tutto fatto apposta per dare al lettore la sensazione di una vicenda complicata, oscura, di cui si capisce poco, da saltare come pesante e noiosa, con tutte le imprese sportive che ci sono, perché “the show must go on”. Allora, diciamolo una volta di più, fuori dai denti: l’informazione italiana, in gran parte, è una grandiosa presa per il culo dei cittadini. Perché non svela mai il lato sistemico dei fatti, che infatti tendono a diventare sistematici, nella loro ripetizione puntuale (“il problema degli ultras”, “la violenza negli stadi”, “la corruzione nel calcio”). Chiudiamo con un esempio che non riguarda la Juventus, così i suoi tifosi non dovranno sentirsi vittime del solito complotto (in Italia non ci può essere giustizia: è sempre la trama di qualcuno contro qualcun altro). Ricordate il famigerato derby Roma-Lazio del 2004, quello sospeso dai capi ultrà entrati in campo, il punto più basso mai toccato dalle istituzioni nel settore calcio? Uno dei sei capi ultrà si chiamava Daniele De Santis, detto “Gastone”. Ha dovuto uccidere un tifoso napoletano, Ciro Esposito, nel 2014, per vedere il suo nome ben esposto sui quotidiani nazionali, e per avere finalmente un condanna (a 26 anni) nel 2016. Ma all’epoca si era potuto permettere di umiliare impunemente forze dell’ordine, questore, prefetto, FGCI, ordinando di non giocare, minacciando ritorsioni in caso di disobbedienza. Puro metodo mafioso. Nemmeno una multa, ha avuto, per quella bravata, “Gastone”, estremista nero. Le accuse dell’epoca, sono andate tutte prescritte; e nel 2008, ma vedi un po’, De Santis si candida nelle liste di Alemanno. Alzi la mano chi lo sapeva, mentre della Raggi è stato scandagliato ogni sospiro (vedi “Un calcio Diabolik” e “I mali di Roma? Irriducibili”, in questa rubrica). Questi bastardi, mafiosi e fascisti, potenziali assassini o assassini “tout court”, sono semplicemente parte dell’establishment. Il che significa  protezione politica, cioè semi-immunità giudiziaria, e, soprattutto, silenzio mediatico. Anche per questo abbiamo avuto la tentazione di titolare il pezzo, parafrasando Peppino Impastato, “la Juve – il sistema calcio - è una montagna di merda”.

Cesare Sangalli